Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/348

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XXI.

Camminando nel giardino, Rosetta ci raccontò che l’anno prima voleva farsi monaca. C’eravamo allontanate con lei e Momina nel boschetto, fino a una balaustra di dove si dominava il mare.

— Ma le ragazze come me non le vogliono, — disse.

— Perché? se hai dei soldi, — disse Momina.

Rosetta si mise a ridere piano e disse che le monache devon essere vergini.

Momina disse; — È un matrimonio come un altro. Tutto quello che si chiede a una sposa è che vesta di bianco.

— Quassú è bello, — disse Rosetta. — Ma domani sarà già meno bello. Per conservare del rispetto per il mondo e la gente, bisogna fare a meno di tutto. Il convento risolve.

— E che cosa avresti fatto sola sola? dipinto madonne? — diceva Momina. — Io non saprei come passarci le giornate...

Rosetta alzò le spalle, all’allusione di Momina. Io stessa me ne accorsi appena. Ma già Mariella con altri s’avvicinavano sotto le magnolie, e Momina borbottò: — Basta un giorno per volta. Passiamoci questo...

La giornata era davvero promettente, non fossero state le signore, sorelle e amiche del barone, e i loro uomini, che insistevano per fare baccano e toglievano il fiato ai custodi, due vecchi scocciati, perché aprissero, portassero roba, preparassero la veranda. Mise un po’ d’ordine Momina che propose di assegnarci una camera e lasciarci riposare un’oretta.

Quella villa era uno splendore, piena di mobili massicci e poltrone, ma tutto incamiciato, perfino i lampadari. I palchetti di legno erano ancora incerati. — Sembra il castello medioevale, —


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