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Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/35

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risposta con un’altra domanda. Discuteva con foga anche di scienza, di principî.

Chiese a me, che parlavo, se fin che restavo borghese ero pronto a svegliarmi.

— Bisogna avere la mano svelta, — gli risposi, — esser piú giovani. Cianciare non conta. L’unica strada è il terrorismo. Siamo in guerra.

Fonso diceva che non era necessario. I fascisti tremavano. Sapevano di aver perso la guerra. Non osavano piú mandar gente sotto le armi. Cercavano soltanto l’occasione di mollare, di sparire nel mucchio, di dire «Adesso fate voi». Era come un castello di carte.

— Tu credi? Hanno tutto da perdere. Soltanto morti molleranno.

Gli altri, le donne, la nonna di Cate, ascoltavano.

— Se ti dice che sono carogne, — intervenne l’oste, — puoi crederci. Lui lo sa, lascia fare.

Sapevano tutti alle Fontane ch’ero insegnante, scienziato. Mi trattavano con molto rispetto. Perfino Cate qualche volta si prendeva soggezione.

— Questo governo, — continuava il vecchio, — non può mica durare.

— Ma è per questo che dura. Tutti dicono «È morto» e nessuno fa niente.

— Tu, che dici? che cosa faresti? — chiese Cate, seria.

Tacquero tutti, e mi guardavano.

— Ammazzare, — dissi. — Levargli la voglia. Continuare la guerra qui in casa. Tanto quelli la testa non la cambiano. Soltanto se sanno che appena si muovono scoppia una bomba, resteranno tranquilli.

Fonso ghignava e stava per interrompere.

— Tu lo faresti? — disse Cate.

— No, — risposi. — Ci sono negato.

La vecchia di Cate ci guardava coi suoi occhi offesi. — Gente, — diceva, — voi non sapete quel che costa. Non serve a nessuno caricarsi la coscienza. Moriranno anche quelli.

Allora Fonso le spiegava che cos’era la lotta di classe.

Ci andavo ormai quasi ogni sera alle Fontane e ascoltavo la radio con gli altri. Le mie due vecchie non volevano saperne di


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