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XXVII.
Rosetta mi disse che non capiva suo padre.
— Io lo capisco, — disse invece Momina. — È di quegli uomini che una volta portavano la barba. Poi di notte una donna gliela taglia e loro passano la vita a redimersi.
— Però ha fatto una Rosetta, — dissi.
— Probabilmente non sapeva come fare a non farla.
Momina rallentò, fermò accanto al portico, e nessuna di noi si mosse.
— Eppure Rosetta gli somiglia, — disse. — Non eri una brava scolara, Rosetta? Scommetto che tuo padre è di quelli che dicono «Se fossi ragazzo, ricomincerei».
Rosetta disse, sulla mia spalla: — Tutti i giovani sono sciocchi.
— E i vecchi, e le vecchie, e i defunti. Tutti sbagliati. Oh Clelia, insegnami il modo di guadagnare quattro soldi e scappare in California. Là dicono che non si muore.
— Tu ci credi? — disse Rosetta.
Vidi Becuccio attraverso la vetrina e gli feci segno. Traversò il portico e si piegò allo sportello. Mentre parlavo con lui, Momina chiedeva a Rosetta perché non andavamo in collina. Becuccio mi disse che quelle casse non erano ancora arrivate. — Hai tempo a fare un giro, — disse Momina.
Ripartimmo. Vedevo la faccia di Rosetta nello specchietto retrovisore. Se ne stava muta, imbronciata, testarda. Certe volte pensavo che fosse giovane giovane, una bambina, di quelle che gli si dice «Di’ grazie» e loro non vogliono saperne. A pensarci, era terribile averla cosí con noi e fare con lei questi discorsi, terribile ma anche ridicolo, buffo. Cercai di ricordarmi come fossi io a vent’anni, a
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