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XI.
Diversi anni prima — qui da noi c’era già la guerra — avevo passato una notte che ogni volta che cammino lungo la ferrata mi torna in mente. Fiutavo già quello che poi successe — la guerra, l’internamento, il sequestro — e cercavo di vendere la baracca e trasferirmi nel Messico. Era il confine piú vicino e avevo visto a Fresno abbastanza messicani miserabili per sapere dove andavo. Poi l’idea mi passò perché delle mie cassette di liquori i messicani non avrebbero saputo che farsene, e venne la guerra. Mi lasciai sorprendere — ero stufo di prevedere e di correre, e ricominciare l’indomani. Mi toccò poi ricominciare a Genova l’altr’anno.
Fatto sta che lo sapevo che non sarebbe durata, e la voglia di fare, di lavorare, di espormi, mi moriva tra le mani. Quella vita e quella gente a cui ero avvezzo da dieci anni, tornava a farmi paura e irritarmi. Andavo in giro in camioncino sulle strade statali, arrivai fino al deserto, fino a Yuma, fino ai boschi di piante grasse. M’aveva preso la smania di vedere qualcos’altro che non fossero la valle di San Joaquin o le solite facce. Sapevo già che finita la guerra avrei passato il mare per forza, e la vita che facevo era brutta e provvisoria.
Poi smisi anche di fare puntate su quella strada del sud. Era un paese troppo grande, non sarei mai arrivato in nessun posto. Non ero piú quel giovanotto che con la squadra ferrovieri in otto mesi ero arrivato in California. Molti paesi vuol dire nessuno.
Quella sera mi s’impannò il camioncino in aperta campagna. Avevo calcolato di arrivare alla stazione 37 col buio e dormirci. Faceva freddo, un freddo secco e polveroso, e la campagna era vuota. Campagna è dir troppo. A perdita d’occhio una distesa gri-
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