Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/428

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gia di sabbia spinosa e monticelli che non erano colline, e i pali della ferrata. Pasticciai intorno al motore — niente da fare, non avevo bobine di ricambio.

Allora cominciai a spaventarmi. In tutto il giorno non avevo incrociato che due macchine: andavano alla costa. Nel mio senso, nessuna. Non ero sulla strada statale, avevo voluto attraversare la contea. Mi dissi: «Aspetto. Passerà qualcuno». Nessuno passò fino all’indomani. Fortuna che avevo qualche coperta per avvolgermi. «E domani?» dicevo.

Ebbi il tempo di studiare tutti i sassi della massicciata, le traversine, i fiocchi di un cardo secco, i tronchi grassi di due cacti nella conca sotto la strada. I sassi della massicciata avevano quel colore bruciato dal treno, che hanno in tutto il mondo. Un venticello scricchiolava sulla strada, mi portava un odore di sale. Faceva freddo come d’inverno. Il sole era già sotto, la pianura spariva.

Nelle tane di quella pianura sapevo che correvano lucertole velenose e millepiedi; ci regnava il serpente. Cominciarono gli urli dei cani selvatici. Non eran loro il pericolo, ma mi fecero pensare che mi trovavo in fondo all’America, in mezzo a un deserto, lontano tre ore di macchina dalla stazione piú vicina. E veniva notte. L’unico segno di civiltà lo davano la ferrata e i fili dei pali. Almeno fosse passato il treno. Già varie volte mi ero addossato a un palo telegrafico e avevo ascoltato il ronzio della corrente come si fa da ragazzi. Quella corrente veniva dal nord e andava alla costa. Mi rimisi a studiare la carta.

I cani continuavano a urlare, in quel mare grigio ch’era la pianura — una voce che rompeva l’aria come il canto del gallo — metteva freddo e disgusto. Fortuna che m’ero portata la bottiglia del whisky. E fumavo, fumavo, per calmarmi. Quando fu buio, proprio buio, accesi il cruscotto. I fari non osavo accenderli. Almeno passasse un treno.

Mi venivano in mente tante cose che si raccontano, storie di gente che s’era messa su queste strade quando ancora le strade non c’erano, e li avevano ritrovati in una conca distesi, ossa e vestiti, nient’altro. I banditi, la sete, l’insolazione, i serpenti. Qui era facile capacitarsi che ci fosse stata un’epoca in cui la gente si ammazzava, in cui nessuno toccava terra se non per restarci. Quel filo sottile della ferrata e della strada era tutto il lavoro che ci avevano


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