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Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/435

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XIII.

Si riparlò di questa storia, in paese. Quel parroco era in gamba. Batté il ferro l’indomani dicendo una messa per i poveri morti, per i vivi ch’erano ancora in pericolo, per quelli che dovevano nascere. Raccomandò di non iscriversi ai partiti sovversivi, di non leggere la stampa anticristina e oscena, di non andare a Canelli se non per affari, di non fermarsi all’osteria, e alle ragazze di allungarsi i vestiti. A sentire i discorsi che facevano adesso donnette e negozianti in paese, il sangue era corso per quelle colline come il mosto sotto i torchi. Tutti eran stati derubati e incendiati, tutte le donne ingravidate. Fin che l’ex podestà disse chiaro, sui tavolini dell’Angelo, che ai tempi di prima queste cose non succedevano. Allora saltò su il camionista — uno di Calosso, grinta dura — che gli chiese dov’era finito, ai tempi di prima, quello zolfo del Consorzio.

Tornai da Nuto e lo trovai che misurava degli assi, sempre imbronciato. La moglie in casa dava il latte al bambino. Gli gridò dalla finestra ch’era scemo a pigliarsela, che nessuno aveva mai guadagnato niente con la politica. Io per tutto lo stradone, dal paese al Salto, avevo rimuginato queste cose ma non sapevo come dirgli la mia. Adesso Nuto mi guardò, sbatté la riga e mi chiese brusco se non ne avevo abbastanza, che cosa ci trovavo in questi paesacci.

— Dovevate farla allora, — gli dissi, — non è da furbi cimentare le vespe.

Allora lui gridò dentro la finestra: — Comina, vado via — . Raccolse la giacca e mi disse: — Vuoi bere? — Mentre aspettavo raccomandò qualcosa ai garzoni sotto la tettoia; poi si volta e mi fa: — Sono stufo. Andiamocene fuori dai piedi.

Ci arrampicammo per il Salto. Da principio non si parlava, o


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