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174 pellegrino rossi e la rivoluzione romana

Il moto rivoluzionario, iniziatosi in Italia, si estendeva e si diffondeva di là dalle Alpi nella Confederazione Elvetica e in Francia e, a cento segni, accennava a propagarsi in altre parti di Europa. Una agitazione confusa e indeterminata, un parlare alto da per tutto, opuscoli, giornali, dove più dove meno apertamente, trattavano tutte le più gravi questioni morali, politiche, religiose e parlavano dei conculcati diritti, dei manomessi interessi dei popoli, e, da per tutto, si inveiva contro il trattato di Vienna del 1815. L’opera politica del Principe di Metternich era assalita da tutte le parti, il sistema da lui inaugurato, sostenuto, propugnato con ogni maniera di arti, dalle più violente alle più fraudolente, era scosso da un terremoto che minacciava di farlo crollare fino dalle sue fondamenta.


    disgraziatamente, si sono associati il Farini, il Minghetti, il Balbo e, talvolta, anche il Pasolini, il Pantaleoni e qualche altro scrittore moderato per far credere che tutto il movimento patriottico che avveniva in Roma fosse l’opera delle suggestioni, degli eccitamenti di arruffapopoli e di esaltati, l’opera di Ciceruacchio, dei forestieri, dei Carbonari La verità vera è una sola ed è questa: quel sommovimento delle coscienze, preparato di lunga mano, da trent’anni, avveniva spontaneamente ed era quasi universale, perchè la parole e gli atti del Papa lo avevano fatto prorompere in aperte e — per il suo assenso — legittime manifestazioni: onde anche i più religiosi o i più tepidi, anche le donne, anche la plebe si eran gittati, con effusione, in quella via di riforme, di libertà, di rigenerazione morale e civile dell’Italia e degli italiani. A tutto quel formidabile movimento popolare non erano avversi in Roma e nello stato romano che i gesuiti e i seguaci interessati del vecchio sistema. Gli esaltati c’erano, certamente, c’erano i democratici ed erano logico e legittimo prodotto di quel clima storico; ma sino al 29 aprile 1848 essi costituivano una piccola minoranza; essi cercavano di spingere alla lega degli Stati italiani, agli armamenti e alla guerra contro l’Austria, supremo desiderio, fine supremo. E se erano democratici, se erano i più caldi e i più esaltati, evidentemente, dovevano spingere e sospingere a quella conclusione. Ma, lo ripeto — e lo aftermo con profonda convinzione di affermare il vero, dedotto dallo studio paziente, accurato e puramente obiettivo di quella storia — sino al 29 aprile non c’era a Roma un solo il quale pensasse alla repubblica, neppure lo Sterbini, neppure il Principe di Canino. Quanto ad Angelo Brunetti, è omaggio al vero dire solennemente che egli era e rimase per qualche mese ancora, anche dopo il 29 aprile, ammiratore entusiasta e adoratore di Pio IX, a cui soltanto riferiva tutto ciò che si faceva di bene e da cui allontanava, con orrore dell’animo suo, tutto ciò che si faceva di male: attribuendo egli tutti gli atti contrari alla causa della patria che commetteva il Papa, compresa la fatale Allocuzione, non a lui, ma ai sanfedisti, ai gesuiti, ai briganti, come diceva lui. Certo, dopo quella funesta Allocuzione, la sua fede in Pio IX fu scossa, e più per l’ostilità dimostrata dal Papa al ministero Mamiani; ma, anche allora, Ciceruacchio sentì strapparsi le vive carni di dosso nel vedere dileguarsi quel caro sogno, nel dover rinunciare a quel per lui sublime ideale del Papa redentore, nel mirare infranto quell’idolo tanto adorato.