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egli pensasse e dicesse «non essere contro i popoli che si dirigevano le armi, ma contro un pugno di faziosi che si imponeva tirannicamente con la violenza ai medesimi; non essere a temere conflitto fraterno, perchè i demagoghi sarebbero fuggiti, e la immensa maggioranza, la universalità dei buoni cittadini sarebbesi levata a fugare i tiranni piazzaiuoli ed accogliere con festa i soldati del Piemonte; questo acquistare autorità, benemerenza presso le popolazioni italiane, osservanza e riguardi dalle potenze straniere, pigliando così risolutamente ad esercitare quell’ufficio egemonico che la Provvidenza voleva a lui assegnato per il risorgimento, per la pacificazione e la ricostituzione d’Italia; essere anzi nel Piemonte medesimo un obbligo sacrosanto di così procedere, perchè l’interesse supremo della causa della nazionalità e dell’indipendenza, alla quale recava si gran nocumento lo sfacelo politico e morale di si importanti regioni, richiedeva che il campione di quella causa in ogni modo si adoperasse a farla trionfare; l’Austria non avrebbe osato, non avrebbe potuto opporsi e, cosi, tacitamente, avrebbe dovuto riconoscere l’egemonia italiana del regno subalpino, ecc.»1.

Dunque esagerazioni si, ma fondamento di verità altresì nelle informazioni del Padre Ventura. Il quale se, nei suoi giudizi, sul Rossi, forse esagerava — sebbene, probabilmente, in buona fede — le tinte, trovava anche li un fondamento non piccolo di verità negli intrighi diplomatici di Pellegrino Rossi, al Padre Ventura, che era uomo di ben alto intelletto e, per il suo ufficio, ormai addentro abbastanza nelle cose della diplomazia italiana, in gran parte noti. Imperocchè il Padre Ventura era, senza dubbio, informato dal Bargagli ambasciatore toscano e dal Pareto legato piemontese, ambedue residenti in Roma, che «il Rossi aveva fatto disdire all’aperto, a Pio IX, le promesse fatte di partecipare alla lega progettata dal Rosmini, infondendogli nel debole animo la paura che lo assentirvi produrrebbe iattura alla reli-

  1. V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II — Trent’anni di vita italiana, Torino, L. Roux e C. editori, 1880, vol. IV, pag. 293 e 294. Ho voluto adoperar le parole dell’illustre storico piemontese, ingegno meravigliosamente pieghevole e insigne nei più disparati generi di letteratura, perchè egli ha, con sapiente e fedele sintesi, raccolto in poche linee il qual che si fosse programma giobertiano, dall’illustre autore del Primato sciorinato diffusamente e nei suoi discorsi parlamentari e nel suo Rinnovamento.