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la mia scuola di grammatica 259

era di far parte di questa Università così augusta, sede, e per il passato e per il presente, di tanta sapienza. È onore, codesto, che fa tremare le vene e i polsi; e certo, quando io pensava a quest’ora, in cui voi m’avreste veduto e udito, tremavo, sì; e avrei certo respinto da me un onore da cui dovevo decadere subito dopo averlo ricevuto: anzi nell’istesso riceverlo. Mi faceva, è vero, animo il pensiero che certe mie povere virtù, non da tutti, non per tutto, non sempre apprezzate e apprezzabili, di scrittore in una lingua morta, potevano, se mai altrove, trovar grazia qui, dove le glorie del Bargeo del Manuzio e del Fabroni erano poco fa rinnovate con tanta purezza dal mio conterraneo Michele Ferrucci; qui, dove, per una tradizione non interrotta, si può ammirare un insigne giurista che scrive e parla elegantemente la lingua appunto del giure; qui dove a me fu dato vedere nel palazzo dei Medici il più acuto e dotto conoscitore della nostra arte letteraria, e che non disdegna, no, egli che conversa con le ombre di Lorenzo il Magnifico e di Angelo Poliziano, questa pervicacia di non voler lasciar fuori d’uso la lingua di Roma. Ma, nonostante questi incoraggiamenti che mi venivano dal passato e dal presente, io devo dire che il mio voto non era proprio quello di essere uno della vostra onesta compagnia, Magnifico Rettore.

Nè di essere venuto a terminare tranquillamente la vita in questa, così bella e così tacita Pisa, dove trovò pace e tepore persino Giacomo Leopardi; tra Livorno e Lucca, le città dove ho fatto tutto ciò che di meno peggio ho potuto fare nella mia arte; nella Toscana che sola può ispirare e ammaestrare uno scrittore italiano... No: nemmen questo: il mio voto