Pagina:Petrarca - Il mio segreto, Venezia, 1839.djvu/84

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moverne lamenti? quante non ti vidi silenzioso e sdegnato, perchè nè la penna nè la lingua giungessero ad esporre i concetti più chiari ed agevoli alla intelligenza! Si chiama adunque eloquenza codesta, che non arriva ad abbracciare qualsivoglia cosa, e che se pure l'abbracci, non ha però potenza di stringerla? Voi rimproverate ai Greci la povertà dei vocaboli, ed essi a voi. E mentre Seneca, a paragone de' Latini, li chiama molto più ricchi, Tullio in principio dell'opera de Finibus; «io, dice, non posso comprendere, perché tanto si fastidiscano le domestiche ricchezze; ed avvegnachè qui non torni a proposito di farne parola, pure non posso contenermi che non affermi ciò che dimostrai anche altrove, che la latina lingua, non solo non è povera, come stimano, ma sì più doviziosa della greca.» Ed egli stesso, anche in altri suoi scritti, come nelle Tusculane esclamò: «o Grecia, sei ben povera di parole, quantunque tu te ne stimi largamente fornita!» E tanto, e con tutta fermezza, asserì colui che sapendosi principe della romana eloquenza, udia fin d’allora guerreggiarsi per la preferenza dell’una tra le due lingue. E Seneca stesso, quell’ammiratore dei Greci, lasciò scritto nelle sue Declamazioni: «il meglio di che possa vantarsi la romana facondia, e quanto v'ebbe in lei che superasse la Grecia superba, tutto fiorì ai tempi di Ci-