Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/107

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nima umana e che si chiama chiesa. Questo zio era ancora una bussola. Ora egli era solo. Sua madre era morta, suo padre istupidito.

Oltracciò era povero e la via, che doveva percorrere per guadagnarsi il pane, era irta di spine. Di medicina non sapeva che ciò che gli restava stereotipato nella memoria delle lezioni del suo professore; ma al letto degli ammalati aveva capito che era ancora molto ignorante. Seguendo il dottor Tibia, nel mondo aveva intravisto la società. Il gran mondo gli pareva quella gabbia di leoni, dove entrano solamente i domatori di bestie feroci. Egli comprendeva che bisognava avere una maglia d’acciaio sotto un abito di velluto.

La natura l’aveva già armato per più che tre quarti dotandolo di una intelligenza rara e di simpatico aspetto. Bruto era avvenente. Aveva ventiquattro anni; la statura avvantaggiata e ben proporzionata, la testa alta con bellissimi occhi neri, i capelli nerissimi, le labbra rosee e i denti bianchi s’univano ad un contegno, che sarebbe forse stato volgare, se la modestia e la timidezza non gli avessero dato un’aria riservata e distinta.

Bruto mancava di coraggio fisico quando la riflessione lo padroneggiava. Lo spettro della polizia lo rendeva vile. Sentiva che questa forza misteriosa si volgeva sempre contro tutto ciò che avesse l’impronta d’una individualità. Ma egli aveva il germe del coraggio morale. Era mestieri che la educazione della mente e del cuore sviluppasse questo germe. Egli aveva volontà e costanza.