Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/108

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La notte che passò dinanzi a quel cadavere in faccia al suo passato e in vista del suo avvenire, fu per Bruto come la veglia dell’armi degli antichi cavalieri.

Prese molte risoluzioni, internamente e giurò di mantenerle. Era un piano di battaglia ch’egli preparava: se ne sentì rialzato. Il figlio del barbiere, il nipote del sagrestano, di sua volontà, si allogava fra gli eletti della società, fra quelli che la illuminano, ne profittano, la servono e la dominano. In uno di questi soffi d’orgoglio, Bruto, passando dinanzi alla bara, rialzò il capo e fissò il suo sguardo sul cadavere.

La luna, che entrava a fiotti dalla finestra aperta, inondava dall’alto al basso il calvo cranio del morto, mentre il lume dei ceri lo rischiarava al basso.

Il contrasto delle due luci produceva un effetto strano. Quella testa sembrava rianimata e un non so che di sardonico spirava da essa. Gli occhi di Bruno caddero su quel viso ironico, che lo agghiacciò di terrore. Andò presso la finestre per chiuderla.

Allora vide rimpetto a sè la finestra di Lena rischiarata. Qualcuno vegliava dietro quei vetri. Se qualcuno vegliava a quell’ora, gli è perchè lavorava; se quel qualcuno lavorava, non poteva essere che Lena. Sua madre doveva russare da lungo tempo. Il pensiero di quella giovane, che passava le notti a cucire o a ricamare per guadagnar il pane, gli fu di sollievo.

Lasciò la finestra aperta e avvicinatosi al cadavere, esclamò:

— Vedrai, zio, se terrò ciò che mi son promesso.