Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/165

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e gli abitatori che incontriamo in questi valichi e gole grandiose, han l’aria prospera e felice. La strada penetra nelle selve, taglia le rocce, si slancia sulle correnti, che scorrono verso il mar Glaciale ed il Caspio, costeggia gli abissi vertiginosi, lambe le vallate che, durante la state, debbono essere deliziose; si precipita a perpendicolo nelle frane, sotto i rami dei pini selvaggi e degli abeti, che già si sprizzolano di brina, mentre le cime dei monti si mantellano di nuova neve. Noi calpestammo la neve della notte. La montagna non ha ancora voci, ma essa ha già dei sospiri, e, nella notte, dei gemiti; le rocce infocate nella state si fendono di un tratto, il vecchio albero scoppia, e dà il suo alito estremo! I camini di qualche opifizio fumano. Le macchine idrauliche strepitano. I torrenti mugghiano. Noi voliamo attraverso tutto ciò, senza prender fiato, senza allentare il galoppo; ci arrampichiamo sui vertici come aquile, sprofondiamo negli abissi come valanghe, così sicuri come se percorressimo i viali di un parco. Il postiglione, i cavalli il veicolo, hanno un’anima sola — un’anima che sfida l’audacia stessa. Ah, se io fossi poeta, che inno! Ah, se io fossi trovator di armonie, che fanfara!

Gli Urali son valicati: siamo a Khaterinenburg, ai piedi del versante opposto, il versante orientale: siamo in Asia, siamo in Siberia! La città ha qualche bell’edifizio: la zecca, lo stabilimento della direzione delle mine, l’arsenale ove si fondono cannoni e fabbricano armi, la dogana... Vi è grande movimento industriale e commerciale: forni, opificii, officine di pietre preziose, lavatoj d’oro e di platino... che mi importa tutto ciò? Io non sono più un’anima.