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loro retroguardia, sloggiati, posti in fuga, decimati, presi da terrore, correvano sulle cime delle montagne, ove le capre stesse sarebbero state prese da vertigine, gettando sacchi e fucili; e quelli che non rotolarono nei precipizi, o non si sprofondarono negli abissi di neve, traversarono il confine, e si arrestarono, mezzo gelati, nella Bukovina.
— Che insaponata! sclamò Bem alla sera.
Infatti, il nord della Transilvania era netto d’Austriaci.
— Ragazzi, disse Bem, fa freddo, e non abbiamo nulla. Che diavolo faremmo qui? Vi resteremmo gelati. Andiamo a riscaldarci nel mezzogiorno; Puchner ci darà del fuoco.
Da quindici giorni non avevamo dormito che tre notti, e i nostri pranzi non erano stati sostanziali, che quando avevamo posto la mano sul rancio preparato dagli Austro Serbi. Rispondemmo ad una voce:
— In marcia, babbo.
Chiamavamo il generale: papà Bem.
Puchner si avanzava in cerca dell’esercito ungherese. Lo incontrammo in vicinanza di Galfalva il 17 gennaio. Ci battemmo per cinque ore.
— Ingoiatemi un po’ quei furfanti! gridò Bem.
Allora li caricammo alla baionetta. Puchner fuggì coi rimasugli della sua colonna nella direzione di Nagy-Szeben (Hermannstadt).
— Addosso a quei cani, urlò Bem.
E noi incalzammo i fuggiaschi, la spada alle reni, per quattro giorni. Nevicava, ventava. Nessuna strada. Attraverso burroni, montagne, torrenti profondi come fiumi, i terreni sfondati e rappresi soltanto alla superficie come per tenderci un agguato, i bagagli in