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V.


Matteo Falcone, quella mattina, non si recò al collegio.

Se Marta, il giorno avanti, si fosse voltata nel salire, avrebbe avuto forse un po’ di pietà per lui rimasto al portoncino come impietrito. Certo egli sperò ch’ella, salendo, gli rivolgesse almeno uno sguardo: poi si mosse sotto la pioggia, quasi barcollando, e attirando gli sguardi della gente.

Non aveva provato mai tanto e così feroce odio contro sè stesso. Ne ghignava forte e squassava l’ombrello fin quasi a spezzarne il fusto e borbottava: — “Io, l’amore! Io, l’amore!„ — e altre parole inintelligibili. E poi, forte, lì in mezzo alla via, col volto contratto e gli occhi fissi biecamente in faccia a qualche passante:

— Meno male che non ha riso di me!

Ne rideva lui invece, orribilmente; e la gente si voltava a mirarlo, stupita, come si guarda un pazzo.

Alla fine, fradicio di pioggia, si ridusse a casa.

Abitava, con la madre e una zia, decrepite e stolide entrambe, una vecchia e vasta casa tutta