Pagina:Pirandello - L'Umorismo, 1908.djvu/102

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98 parte prima

Per questo il destrier sordo a lui non riede,
Anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge,
Ma seguitiamo Angelica che fugge.


Figurarsi se Bajardo voleva fermarsi! Il suo padrone è innamorato, dunque è matto. E

Quel destrier, ch’avea ingegno a meraviglia,


capisce quel che il suo padrone non può capire. Ecco: il senno che l’Amore toglie a gli uomini è dato dal poeta a una bestia. Nel c. II (s. 19) dice, a mo’ d’aggiunta, «il destrier ch’avea intelletto umano». Umano, sì, ma — intendiamoci — non d’uomo innamorato!

Non giurerei proprio che qui non ci sia una punta di satira. L’ironia del poeta è una sottilissima sega, che ha tanti denti, e anche quello della satira, che morde un po’ tutti, fino fino, sotto sotto, a cominciar dal cardinale Ippolito, suo padrone.

Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!

Vi par che qui l’ironia consista soltanto nel fatto che Ferraù e Rinaldo, dopo essersi picchiati a quel modo che sapete, cavalchino insieme, come se nulla fosse stato? Il Rajna dice che i romanzi francesi recano in buona fede molti esempii di siffatte magnanime cortesie, e tre ne reca dal Tristan per concludere: «Questa è la cortesia e la lealtà dei cavalieri di Brettagna». Benissimo! Ma non già dei due cavalieri dell’Ariosto, che non dimostrano ombra di cavalleria. Per intenderlo, bisogna pensare a che cosa avrebbe potuto rispondere Ferraù alla proposta di Rinaldo di smettere il duello: «Io non combatto per una preda, io combatto per difendere una donna che m’invoca ajuto; e se io son riuscito a difenderla, non ho combattuto invano». Un buon cavaliere antico, veramente nobile, avrebbe risposto così. Ma tanto Rinaldo quanto Ferraù non vedono