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170 parte seconda

diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.

Ora la riflessione, sì, può scoprire tanto al comico e al satirico quanto all’umorista questa costruzione illusoria. Ma il comico ne riderà solamente, contentandosi di svesciar questa metafora di noi stessi messa su dall’illusione spontanea; il satirico se ne sdegnerà; l’umorista, no: attraverso il ridicolo di questa scoperta vedrà il lato serio e doloroso; smonterà questa costruzione ideale, ma non per riderne solamente; e in luogo di sdegnarsene, magari, ridendo, compatirà.

Il comico e il satirico sanno dalla riflessione quanta bava tragga dalla vita sociale il ragno dell’esperienza per comporre la ragna della mentalità in questo e in quell’individuo, e come in questa ragna resti spesso avviluppato ciò che si chiama il senso morale. Che cosa sono, in fondo, i rapporti sociali della così detta convenienza? Considerazioni di calcolo, nelle quali la moralità è quasi sempre sacrificata. L’umorista va più addentro, e ride senza sdegnarsi scoprendo come, anche ingenuamente, con la massima buona fede, per opera d’una finzione spontanea, noi siamo indotti a interpretar come vero riguardo, come vero sentimento morale, in sè, ciò che non è altro, in realtà, se non riguardo o sentimento di convenienza, cioè di calcolo. E va anche più in là, e scopre che può diventar convenzionale finanche il bisogno d’apparir peggiori di quello che si è realmente, se l’essere aggregati a un qualsiasi gruppo sociale importi che si manifestino idealità e sentimenti che sono proprii a quel gruppo, e che tuttavia a chi vi partecipa appariscono contrarii e inferiori al proprio intimo sentimento.1



  1. Mi avvalgo qui di alcune acute considerazioni contenute nel libro di Giovanni Marchesini, Le finzioni dell’anima (Bari, Gius. Laterza e Figli, 1905).