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la parola «umorismo» 17

dallo spirito, dall’«Io», che è anche divinità, l’anima dell’essenza del mondo, che genera tutto ed è impersonale, che è volontà infaticabile, la quale racchiude in sè ragione, libertà, moralità; aveva voluto dimostrare il dovere dei singoli uomini di sottomettersi al volere della totalità e di tendere al culmine dell’armonia morale.

Ora, quest’«Io» del Fichte diventò l’«io» individuale, il piccolo «io» strambo del signor Federico Schlegel, che con un cannellino e un po’ d’acqua saponata si mise allegramente a gonfiar bolle di sapone: vane parvenze d’universo, mondi; e a soffiarci su. E questo era il giuoco. Povero Schiller! Non poteva esser falsato in modo più indegno il suo Spieltrieb. Ma il signor Federico Schlegel prese alla lettera le parole: «der Mensch soll mit der Schöneit nur spielen, und er soll nur mit der Schöneit spielen. Denn, um es endlich auf einmal herauszusagen, der Mensch spielt nur, wo er in voller Bedeutung des Worts Mensch ist, und er ist nur da ganz Mensch, wo er spielt»,1 e disse che per il poeta l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealità delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di sè stesso che la propria vita consacra a giocare.2

Intesa in questo senso l’ironia, ognun vede come a torto essa venga attribuita a certi scrittori, come ad esempio, al nostro Manzoni, che della realtà oggettiva, della verità storica si fece una vera e propria fissazione, fino a condannare il suo stesso capolavoro. Nè d’altra parte si può attribuire al Manzoni quell’altra

  1. Lettera XV.
  2. Vedi Victor Basch, La poëtique di F. Schiller (Paris, Alcan, 1902).
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