Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/17

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ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.

Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica.

Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perchè non s’abbia tempo nè modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare.

Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.

C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile? quello dell’apparecchio cinematografico?

Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.

Si spezzerà?