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Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/234

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Al pianerottolo del secondo piano, due vecchie porte, basse, ritinte di fresco. Da una pendeva il cordoncino frusto del campanello. L’altra non ne aveva. Questa o quella? Picchiai prima a questa, forte, con la mano, una, due, tre volte. Mi provai a tirare il campanello dell’altra: non sonava. Qua, allora? E picchiai qua, forte, tre volte, quattro volte... Niente! Ma come? sorda anche Duccella? o non era in casa con la nonna? Ripicchiai più forte. Stavo per andarmene, quando sentii per la scala le pedate grevi e l’ànsito di qualcuno che saliva faticosamente. Una donna tozza, vestita d’uno di quegli abiti che si portano per voto, col cordoncino della penitenza: abito color caffè, voto alla Madonna del Carmelo. In capo e su le spalle, la spagnoletta di merletto nero, in mano, un grosso libro di preghiere e la chiave di casa.

S’arrestò sul pianerottolo e mi guardò con gli occhi chiari, spenti nella faccia bianca, grassa, dalla bazza floscia: sul labbro, di qua e di là, agli angoli della bocca, alcuni peluzzi. Duccella.

Mi bastava; avrei voluto scapparmene! Ah, fosse almeno rimasta con quell’aria apatica, da ebete, con cui mi si piantò davanti, ancora un po’ ansimante, sul pianerottolo! Ma no: volle farmi festa, volle esser graziosa, — lei, ora, così — con quegli occhi che non erano più i suoi, con quella faccia grassa e smorta di monaca, con quel corpo tozzo, obeso, e una voce, una voce e certi sorrisi che non riconoscevo più: festa, complimenti, cerimonie, come per una gran degnazione ch’io le facessi; e volle a ogni costo ch’entrassi a vedere la nonna che avrebbe avuto tanto piacere dell’onore... ma sì, ma sì...