Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/235

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Trasite, prego, trasite... —

Per levarmela davanti le avrei dato uno spintone, anche a rischio di farle ruzzolare la scala! Che strazio molle! che cosa! Quella vecchia sorda, istolidita, senza più un dente in bocca, col mento aguzzo che le sbalzava orribilmente fin sotto il naso, biasciando a vuoto, e la lingua pallida che spuntava tra le labbra flaccide grinzose, e quegli occhiali grandi, che le ingrandivano mostruosamente gli occhi vani, operati di cateratta, tra le rade ciglia lunghe come antenne d’insetto!

— Vi siete fatta la posizione (con la zeta dolce napoletana) — la posi-zzi-o-ne. —

Non mi seppe dir altro.

Scappai via, senza che mi passasse neppur per ombra, un momento, il pensiero di muovere il discorso per cui ero venuto. Che dire? che fare? perchè chieder notizie del loro stato? se erano davvero cadute in miseria, come dall’aspetto della casa si poteva argomentare? Consolatissime di tutto, stolide e beate con Dio! Ah! che orrore, la fede! Duccella, il fiore vermiglio... nonna Rosa, il giardino della villetta coi gelsomini di bella notte...

In treno, mi parve di correre verso la follia, nella notte. In che mondo ero? Quel mio compagno di viaggio, uomo di mezza età, nero, con gli occhi ovati come di smalto, i capelli lucidi di pomata, era sì lui di questo mondo; fermo e ben posato nel sentimento della sua tranquilla e ben curata bestialità, ci capiva tutto a meraviglia, senza inquietarsi di nulla; sapeva bene tutto ciò che gli importava di sapere, dove andava, perchè viaggiava, la casa ove sarebbe sceso, la cena che lo