Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/42

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cantuccio verde e solitario, fuori e lontana dalle vicende del mondo.

C’era una volta sul pilastrino del cancello una targhetta di marmo, che recava il nome del proprietario: Carlo Mirelli. Nonno Carlo pensò di levarla, quando la morte trovò la via, la prima volta, per entrare in quella schiva casetta perduta in campagna, e si portò via il figliuolo di appena trent’anni, già padre a sua volta di due piccini.

Credette forse nonno Carlo che, tolta dal pilastrino la targhetta, la morte non avrebbe trovato più la via per ritornare?

Nonno Carlo era di quei vecchi, che portavano la papalina di velluto col fiocco di seta, ma sapevano leggere Orazio. Sapeva dunque che la morte, aequo pede, picchia a tutte le porte, abbiano o non abbiano il nome inciso su la targhetta.

Se non che, ciascuno, accecato da quelle che stima ingiustizie delle sorte, prova il bisogno irragionevole di rovesciar le furie del proprio cordoglio su qualcuno o su qualche cosa. Le furie di nonno Carlo, quella volta, s’abbatterono su l’innocente targhetta del pilastrino.

Se la morte si lasciasse afferrare, io la avrei afferrata per un braccio e condotta davanti a quello specchio, ove con tanta limpida precisione si riflettevano nell’immobilità i due cestelli di frutta e il dietro dell’orologetto di bronzo, e le avrei detto:

— Vedi? Vàttene ora! Qua deve restar tutto così com’è! —

Ma la morte non si lascia afferrare.

Abbattendo quella targhetta, forse nonno Carlo