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quella sua guerriera fermezza di dimostrarmi ancora una volta, senza che n’avessi più bisogno, come un nonnulla sarebbe bastato a fargliela crollare: una parola che avrei detta, il tono con cui l’avrei detta; tale da frastornarlo e da fargli cangiar l’animo, e con l’animo, per forza, tutta quella sua solidissima realtà, come ora dentro di sè se la sentiva, e fuori se la vedeva e se la toccava.
Appena mi disse che Firbo specialmente non si poteva dar pace di quanto avevo fatto, gli domandai con un sorriso fatuo, per farlo stizzire:
— Ancora? —
Difatti si stizzì:
— Ancora? Eh, caro mio! Ci hai fatto trovare tutti gl’incartamenti dello scaffale in tale scompiglio, che gli ci vorranno a dir poco due mesi per rimetterli in ordine. —
Mi feci allora molto serio e, rivolto a Dida:
— Vedi, cara, tu che credevi una burla? —
Dida mi guardò subito incerta; poi guardò Quantorzo; poi di nuovo me; e in fine domandò, con apprensione:
— Ma insomma, che hai fatto? —
Con la mano le feci segno d’aspettare. Ancora più serio, mi rivolsi a Quantorzo e gli dissi:
— Ha trovato lo scompiglio nello scaffale il signor Firbo? E perchè non ti provi ora a domandare, tu a me, che cosa ci ho trovato io? —
Ed ecco che Quantorzo s’agitò sul divano e una ventina di volte battè le pàlpebre come per richiamarsi