Pagina:Pirandello - Uno nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1936.djvu/193

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sime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi guardava di sfuggita, mi erano sembrati così chiaramente rivolti a quella sciocca immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente, che nessun desiderio m’era mai sorto d’intrattenermi a parlare con lei.

Non ero mai stato a casa sua.

Orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badìa Grande: mura d’antico castello, dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul tramonto s’affacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch’essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, così le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso chi per un altro, mezze matte.

Non trovai in casa Anna Rosa. La vecchia serva che m’aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era su alla Badìa, dalla zia monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d’essere introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina.

Tutto questo mistero mi stupì. E sul principio, anzichè accrescere la mia curiosità, mi trattenne d’an-