Pagina:Pisacane - Saggio sulla rivoluzione.djvu/146

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XII. Pria di procedere più innanzi, rileva rammentare per sommi capi quello di cui sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del progresso abbiamo scorto come le società tendono nelle varie loro evoluzioni ad assettarsi fra le leggi naturali, e quando, per errore dell’istinto, per disaccordo del sentimento con la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente declinano.

Indi osservammo, come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti, abbia fatto di tutt’Europa un popolo di costumi, di leggi, di propensioni quasi uniformi; e noi abbracciandolo nel suo insieme ne siamo venuti scrutando le tendenze, sì economiche che politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il restringersi il numero de’ possessori di esso, il crescere incessante dei miseri e della miseria, sono cose evidenti, innegabili; e quindi i mali, la necessità di migliorare, la reazione de’ miseri, contro i pochissimi ricchi, certa, immancabile. Quinci, sotto varie cagioni mascherato il connubio dei pochi agiati co’ despoti; e ad ogni minaccia, ad ogni rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine contro la numerosa plebe, e da questa lotta emergere indubitamente il despotismo militare, o il trionfo della democrazia, l’uno seguito dalla licenza e dalla dissoluzione, l’altro dal rinnovamento sociale. Altra alternativa non v’è.

Incerti, ci siamo fatti a cercare quale delle due soluzioni fosse la più probabile. L’atteggiamento, i tentativi, il cupo premere del proletario, fanno fede che la sua fibra è rozza, non flacida; l’elatere n’è compresso, ma non spento; quindi havvi speme di vita. Il soldato che lo fronteggia non è pretoriano, non avventuriere, ma proletario anch’esso, affatturato da magica forza, che lo costringe a sacrificare sè medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle de’ suoi eguali, epperò