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Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/142

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     E se ben so, che quella gente adula,
Pur non me ne curai, che non s’affalsa
Il gran giammai se non con esca, o pula.
     Vidi anco nel passar de l’onda salsa,
L’infelice Vulcan tutto abbruciato,
Ch’avea battuto la moneta falsa:
     Alfin giunsi a Messina, ove sbarcato,
Montai sopra un naviglio d’un mercante
Che certi cavai Turchi avea portato,
     Passai Corfu, poi santa Maura, e ’l Zante,
Indi nel golfo entrato di Corinto,
Su l’amato terren posai le piante.
     E dal desio pur di Parnaso spinto,
Rimontai su la mula ancor che buona
Parte a piè gissi per quel labirinto.
     Insomma, come quel ch’affretta, e sprona,
E da sbrigliate, e stringe le calcagna,
E si dimena tutta la persona,
     Giunsi al piè d’un’altissima montagna,
Sotto de le cui balze affaticarsi
Vidi una turba veramente magna.
     Ch’avendo in van stentato d’aggrapparsi
Su per quegli erti, e spaventosi scogli,
Tirata dal desio d’immortalarsi,
     Mille suoi scritti alfin, mille suoi fogli
Cuciva insieme, e a guisa poi di funi,
Gli attorceva a la ruota de gl’imbrogli.