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Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/169

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     Seguia poi dietro l’animal nasuto
Dicendo: oimè, cor mio, ch’ogni tuo calcio
M’è caro, e per favor me lo reputo.
     Ciò vedend’io, presi un gran pal di salcio
Ch’ogni amorosa bestia suol guarire,
Se gli è rotto sul capo fin al calcio;
     E volendo la zuffa lor partire,
Correva anch’io, ma ben m’accorsi al fine
Che ’l correr va più lento che ’l fuggire,
     Anzi del caso mio quasi indovine
Fin le pianelle mie m’abbandonaro,
Dicendo, che temevan de le spine.
     Tal che in pedane dietro a quel somaro,
Ed a la mala corsi, e corro ancora,
Nè più di ripigliarla c’è riparo.
     Ma sceso son del monte, e già son fuora
Del dominio d’Apollo, e omai fa segno
Di volersi tuffar in mar l’aurora.
     Ahi, chi mi rompe così bel disegno,
Ch’io non possa veder gli appartamenti
Là su d’ogni felice, e chiaro ingegno?
     Perchè fra l’armi, e fra gli incantamenti,
Quivi gli eroici, e là più dentro stanno
D’amor cantando i Lirici concenti;
     Perchè avrei visto il gran rispetto ch’hanno
A le stanze appartate da i Latini,
I topi, ch’a i volgar fan tanto danno.