Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/188

Da Wikisource.

     Tristi augurj parranmi, e cure vuote,
Se per trarre ogni verso uopo a te sia
Roderti l’unghie, e di graffiar le gote,
     Destrier, che sempre ha dello spron per via
D’uopo, i’ non curo, e quel prepongo, e lodo,
Che mai zampa all’andar non ha restia.
     So, che non sempre a noi si mostra a un modo
Facile Apollo, e carmi a stento detta
Talvolta, e tienci tra martello, e chiodo.
     E allora? allora tu la penna getta,
E lascia pur che senza un sonettaccio
Cinga chi vuol la dottoral berretta.
     Lascia a chi tocca di sposar l’impaccio,
E credi pur, che l’alma Sposa, ancora
Senza di te, torrà lo Sposo in braccio.
     Canterà ’l Prete, o ’l Frate alla stess’ora
La nuova messa, senza che sull’ali
D’Ode tu ’l desti nella prima aurora.
     Se far non vuoi come que’ due cotali,
Ch’i Sonetti del Bondi, e Botta-Adorno
A se stessi calzar come stivali.
     Ed ardirono apporvi al pieno giorno
Nomi loro, e cognomi in foggia chiara;
O Patria! o Muse! o Padre Febo, o scorno!
     Tu a sceglier dunque i buon momenti impara,
Quando son gli seconda, e non ascolta
Chi vuol di freno allor tua destra avara.