Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/187

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     O sventurato, e più che talpa cieco,
Chi insensibile ha l’alma a tal lusinga,
Degno d’inospital barbaro speco!
     Ma più chi tanto ad ottener s’accinga
Dal numerar sulle tranquille dita
Freddi accenti, ond’i carmi accozzi, e spinga.
     Ch’armonia crede star nella compita
Cesura, od emistichio, e versi mena,
Cui nega Apollo un giorno sol di vita.
     Ch’ov’è d’uopo volar van zoppi appena,
E volan, se villan sterp’aspro deve
Schiantare a forza di braccia, e di schiena.
     Ch’imago mai non dan lunga, nè breve
Di sensi, e suoni, dal cui solo accordo
Anima, e moto Poesía riceve.
     Degni versi, ch’un canti all’altro sordo,
O ’n nozze d’usurajo a spenti rai
Funeral Gufo, o qual v’ha augel più lordo.
     Ma se propizia in ciò Natura avrai,
Spontanei sempre ti verranno a bomba
I carmi, ed atti a ciò, che dir vorrai.
     E od aspri ringhi, o rauco suon di tromba,
O gli stridenti strai scagliarsi a sghembo
Tra ’l tuon, ch’intorno romoreggia, e romba.
     Il crebro a terra grandinar da grembo
Di rotta nube, oppur ruenti ruote
Dirai che volvon d’atra polve un nembo.