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Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/195

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Quando ’l clamor de’ vinti
Miste a feroci applausi
Delle incalzanti schiere
Tra l’urto, e’l suon delle percosse spade
Molce l’orecchio al vincitor, che cade.
     Ma se giustizia ognora
L’arme non mette a forti duci in mano,
Se leggier aura, e spesso iniqua ancora,
Desta l’incendio vastator di Marte,
Se di sangue innocente
Irrigate mai sempre, intrise, e sparte
Son le palme migliori, e se pur troppo
A spavento de’ giusti
Ride fortuna all’oppressor sovente,
Non altro vanto adunque
Se non quello vi fia, che splender fero
Del tuo simile i danni?
E fia, che solo entro i comuni affanni
Di bella lode altero
Sopra tutti si veda andar colui,
Che più bebbe di pianto, e sangue altrui?
     Repubblica guerriera,
Tu che ’l pregio dell’arme alto portasti
Quanto altri più non l’innalzò dappoi,
O ne’ consigli tuoi
Forse più ch’in valore unica al mondo,
A te, Roma, n’appello, a que’ tuoi fasti