Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/59

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     Oltre che a sempre amar v’inclina il core
Tutte le leggi voglion ch’esser deggia
Tale il buon cortigian, qual è il signore.
     E se anzi il dì la barba vi biancheggia,
Basti che ’l corpo ha le sue usate tempre;
E morbida è la guancia, e vi rosseggia.
     Ardete, e ’l vostro ardor mai non si tempre,
Che ’l nome suo, che Venere a voi diede,
Di ragion vi condanna ad amar sempre.
     Poichè parlando, ch’uom non se ne avvede,
Dove alla villa io mi credea d’andarne
Alla selva d’amor portonne il piede,
     Qui già tant’anni avezzo di portarne,
Qui vo’ che si finisca il cammin nostro:
Che in miglior parte uom non potria lasciarne.
     Qual il poder si compri, io v’ho già mostro,
A consiglio d’antichi, e di moderni,
Perchè sia buono, e degno d’esser vostro.
     Se gli affanni domestici, o gli esterni
Non m’impediscon, forse un dì di questi
Dirò come si tratti e si governi.
     Intanto io pregherò, ch’ella vi presti
Il suo favor fortuna nel comprarlo;
Sì che da desiar nulla vi resti:
     Nè pur vengan sovente ad onorarlo
Flora e Pomona, e Cerere e Leneo;
Ma non possan mai punto abbandonarlo.