Pagina:Poemetti italiani, vol. IV.djvu/166

Da Wikisource.

Ma il samio auriga all’universo in mezzo
Ferma le rote del volubil carro,
E dal timon gli alipedi discioglie.
Quegli, esultando, per gli eterei campi
Qua e là sen vanno senza legge, e molta
Dagli agitati crin fiamma si spande,
Finché vogliosi del notturno albergo
Nel profondo s’attuffano del mare,
E non ascoltan più l’ingrata voce
Del mattin che dall’onde in ciel li chiama.
Ecco Nettuno dall’azzurre chiome
A Filolao sdegnoso offre il tridente
Scotitor della terra. Egli a due mani
Nel sen lo vibra dell’inerte globo,
E dal centro del mondo alfin lo svelle.
Con molta forza l’urta indi, e lo spinge
Sull’ampio calle, che traendo il lume
Stampò d’orma immortale Eto e Piròo.
Segue la terra, e variando l’anno
Va da se stessa dal monton frisèo
Di segno in segno obliquamente a’ muti
Dell’acque un tempo, or cittadin del cielo.
Ma della terra a’ neghittosi perni
Eraclide ed Ecfante, anime audaci,
Già dan di piglio, e rotear sull’asse
La sforzan dall’occaso al lucid’orto,
E le alternan col moto il giorno e l’ombra.