Pagina:Poemetti italiani, vol. V.djvu/142

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Le garrule presaghe de la pioggia.
Tolte a i guadi del Brembo, altro presagio
Aprir di luce al secolo vicino.
Stavano tronche il collo: con sagace
Man le imaiolava vittime a Minerva,
Cinte d’argentea benda i nudi fianchi.
Su l’ara del saper giovin ministro:
Non esse a colpo di coltel crudele
Torcean le membra, non a molte punte.
Già preda abbandonata da la morte,
Parean giacer: ma se l’argentea benda
Altra di mal distinto ignobil stagno,
Da le vicine carni al lembo estremo,
Venne a toccar, la misera vedevi.
Quasi risorta ad improvvisa vita.
Rattrarre i nervi, e con tremor frequente
Per incognito duol divincolarsi.
Io lessi allor nel tuo chinar del ciglio,
Che ten gravò: ma quella non intese
Di qual potea pietade andar superba.
E quindi in preda a lo stupor, ti parve
Chiaro veder quella virtù che cieca
Passa per interposti umidi tratti
Dal vile stagno al ricco argento, e torna
Da questo a quello con perenne giro.
Tu pur al labbro le congiunte lame.
Come ti prescrivea de’ Saggi il rito,