Pagina:Poemetti italiani, vol. VI.djvu/103

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Tu adunque allor che placida mattina
Vestita riderà d’un bel sereno,
Esci pedestre, e le abbattute membra
All’aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuoio a te la gamba calzi
Purpureo stivaletto, onde il tuo piede
Non macchino giammai la polve e ’l limo
Che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno
Leggiadra veste che sul dorso sciolta
Vada ondeggiando, e tue formose braccia
Leghi in manica angusta a cui vermiglio
O cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color che l’elitropio tigne
Sottilissima benda indi ti fasci
La snella gola: e il crin... Ma il crin, Signore,
Forma non abbia ancor da la man dotta
Dell’artefice suo; ché troppo fôra,
Ahi! troppo grave error lasciar tant’opra
De le licenziose aure in balía.
Non senz’arte però vada negletto
Su gli omeri a cader; ma, o che natura
A te il nodrisca, o che da ignota fronte
Il piú famoso parrucchier lo tolga
E l’adatti al tuo capo, in sul tuo capo
Ripiegato l’afferri e lo sospenda
Con testugginei denti il pettin curvo.
   Poi che in tal guisa te medesmo ornato