Pagina:Poemetti italiani, vol. XII.djvu/16

Da Wikisource.
12

     Ma perch’ella non viene a chi col core
La chiama, a mio malgrado io vivo resto.
Spirto gentil, a cui del mio dolore
L’aspro suon ascoltar non è molesto,
Ti giuro per l’immenso, e fiero ardore,
Che va di me già consumando il resto;
Che la vita crudel ch’io qui trapasso
Avria virtù di far pianger un sasso.

     S’io odo alcun felice e lieto amante
Narrar gioioso i suoi tranquilli ardori,
E quante volte del suo amor costante
Raccoglie frutti, non pur fronde e fiori,
Dico d’invidia colmo in quell’istante
In voi spiega fortuna i suoi favori,
Sol io lungi al mio ben qui mi disfaccio,
E nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio.

Se (come avvien) mai veggio andar donzelle
Per la cittade il dì liete vagando,
Benchè molte ne fian leggiadre e belle
Atte a furare i cor sol rimirando,
Biasmo il mio crudo fato, e l’empie stelle,
E tra me stesso dico sospirando
Tanto avanzano ogn’altro i dolor miei,
Quanto ciascuna è men bella di lei.