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lxxx ESIODO

mente infinito e divino, tanto contemplato da una metropoli quanto da una gola alpestre.

Il poemetto comincia senz’altro con una visione di stelle, anzi, favorendo il genio della lingua, col nome stesso d’una costellazione: le Pleiadi. «Le Pleiadi figlie di Atlante levandosi dal cielo». Tutti nomi ricchi di suggestione, che nel testo, per l’abbondanza di consonanti liquide e di chiare vocali addensate, quasi emulano il fitto argenteo palpitare della costellazione1.

E viene poi la visione del cielo d’autunno, che, quando declina la furia della canicola, piove a dirotto, melanconicamente.

E arde la cerula vampa di Sirio, «che poco viaggia di giorno e piú si compiace della notte».

E Arturo, quando Giove ha compiuti i settanta giorni dopo il solstizio d’inverno, lascia la sacra corrente d’Oceano, ed eleva il suo astro tutto riscintillante al sommo della foschia crepuscolare.

E a contemplarlo, a vagheggiarlo, poi che Orione e Sirio sono giunti a mezzo del cielo, si leva di contro Aurora dalle dita di rose.

Orione è il cacciatore feroce dell’antica mitologia. Sirio il suo cane. E come li vedono, le Pleiadi, le spaurite colombe, fuggono la sua forza violenta, e sprofondano nell’azzurra caligine del mare.

Cosí dunque, al principio di ciascuna di quelle partizioni che si seguono a mo’ di lasse, quasi in un ritmo di preghiera, gli animi sono richiamati alle meravigliose parvenze del cielo. Un grande arco azzurro infinito si stende sopra le piccole e le piccolissime cose della terra:

Chiamavi il cielo e intorno vi si gira
mostrandovi le sue bellezze eterne.


  1. Πληιάδεων Ἀτλαγενέων ἐπιτελλομενάων.