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Pagina:Politici e moralisti del Seicento, 1930 – BEIC 1898115.djvu/234

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228 anton giulio brignole sale


nell’apparenza sembrano di quelle rose, onde cibati possan d’asini ritornar uomini, ma son salvatiche rosaccie, che gl’inasiniscono piú che non erano. Essi con ossequiosi inchini, e con mentite altezze, o con serenitadi cercan di abbagliarlo, o côrlo nelle gambe in guisa, ch’egli cada loro nelle braccia opima spoglia; ed egli con palpar di spalle o soavitá di ghigni e di occhi cerca di dar loro a creder, che gli sian, felici predatori, nel sen caduti. Con fallaci balzi sono palla l’un dell’altro in perpetuo giuoco. Fallendo docuerunt falli, dice Seneca. Il non giunger a veder giammai la veritá non è miseria men del cortigiano, che sia del principe. Quello la nasconde a questo, perciò che non osa; questo a quello, però che non degna di palesarla.

Quel poeta o quel filosofo, perciò che il principe l’invita a assister sopra la sua mensa, forse piú a cacciar le mosche col ventaglio della barba, che il rincrescimento con le erudizioni, avvisa, che il signore tenga in pregio e assapori il suo valore; ma non sa, che se quel ricco di Luciano mettea studio grande ne’ calzari, benché avesse i piè di legno, parimente il principe, quantunque inarchi il ciglio nell’udir degli entimemi, ha però molte piú lettere nelle monete intorno il capo il suo ritratto, ch’egli nel capo. Ma che, noi stessi c’inganniamo volentieri, perciocché crediamo ciò che vorremmo. Miramur parietes tenui marmare obductos, cum sciamus quale sit quod absconditur, oculis nostris imponimus. Conosciam chiarissimo, che quelle dimostrazioni, che fa il principe tutto benigno, sono un bel belletto: e pur vogliamo creder vivo sangue il cinabro falso, simili a chi, guasto di una meretrice, con la spugna delle dolcitudini prova congionto il fier rasoio, che lo scortica e lo spolpa e giunge fino a disossarlo, e a dispetto nondimeno de’ suoi strazi, in credersi riamato s’incaponisce. E certo buon mi tengo di tal paragone quando mi sovvien, che presso il facetissimo Luciano i gran signori fanno co’ seguaci loro ciò che fan le scaltre cortigiane co’ loro idolatri. — E che fanno elleno? — dice costui. Sempre di speranza gli nutricano, non mai di frutto, acciocché né il possesso intiero con la sazietá, né l’assoluta negativa con la disperazione spengan l’affetto. I prin-