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il caronte 135


Car. — Non dissi che tu eri felice, o amico; ma felice per aver saputo ciò.

Ombra. — Non è la conoscenza dei beni che rende l’uomo felice, ma il possederli e l’usarne con gioia.

Car. — Ma chi è quel prepotente sfacciato che fa tanto chiasso laggiù?

Ombra 6.a — É il primo dei miei amici; non ti adirare con lui.

Car. — Amici voi?... così diversi come siete?...

Ombra. — Se è proprio dell’amico giovare all’amico, questi m’è stato utile più di nessuno altro amico. Devi sapere che egli era del mio quartiere; e siccome ogni giorno leticava con sua moglie, fu quello che più mi convinse a non riprenderla io. Poi, siccome per un nonnulla se la prendeva con me e coi vicini, m’insegnò ad essere paziente e tollerante con tutti. E perciò, come Ercole, salendo all’Olimpo, andò a salutar prima fra tutte Giunone, la sua acerbissima nemica, che gli aveva imposto le più faticose imprese, così io amo costui e lo ringrazio d’avermi insegnato la pazienza.

Car. — Pazienza e sapienza. Ma tu, noiosissimo seccatore, perchè ti conducevi così?

Ombra 7.a — Mi chiamavano il Mosca, e ho voluto esserlo per davvero.

Car. — Solamente? Chi sa come ti rincresceva di non avere il pungiglione delle vespe!

Ombra. — Mi contentavo di quello delle mie parole, con cui vincevo le vespe e le zanzare.

Car. — La tua pena sarà dunque fra le zanzare e i calabroni! Vattene; e tu, ospite caro Etrusco, dimmi se conosci qualcun altro, in mezzo a questa gran moltitudine.