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L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto: e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi pajon qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutto in uno
Del numero infinito e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così pajon come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente; e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Così, riflettendo la propria infelicità, contemplava l’universo nella sua eterna vicenda il più nobile degli scrittori italiani di questo secolo; e mai forma più alta di poesia ha vestito concetti più esatti. Colui che fu detto l’ultimo dei Greci ha fatto rivivere nel suo verso l’antico, mistico accordo fra l’Estetica e l’Astronomia.