280a ornar le trecce d’ebano e i nitenti
omeri e il collo e le nudate braccia,
tutto, qual per incanto, a sé davanti
vide la bella fata; e il cor di donna
con precipiti palpiti battea. 285Ma non molto durò; ché come piombo
le pesâr quelle vesti, e interrogarne
il perché non ardiva. Una rancura
vigile sempre nel profondo petto
la tormentava, la scotea dall’ebro 290assopimento, le dicea: — Tu dormi,
ma teco io sono! — Edmenegarda fece
per non udir quell’importuno grido.
Ma, qual punta di dardo in piaga viva,
ei riveniva. Disperata pianse, 295meditò, corrucciossi, e forza a forza
apertamente oppose. — Hai ben ragione,
Leoni mio. Noiosa è questa vita
di servitú, chiusi dall’onde. Io stessa,
che vivrei teco ne’ deserti, or sento 300che dritto n’hai, se la disami. Eguali
qui gli strepiti, sempre egual la pace;
gondole eterne e gondolieri e ciance.
Mai quell’ampio e vibrato aere, quel sole
che non si franga dalle pietre in fiamma! 305Mai quel vario veder, quell’agitato
scalpitío de’ cavalli e quel de’ campi
dolce tumulto: mai quelle segrete
melodie che fa l’ôra intra le fronde;
né un fil d’erba, né un fior, né una dolce ombra, 310che queti il cuore! E non poter da un cocchio