Pagina:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu/227

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XCI

QUEL DÌ

Diva Morte, quel di, che, il capo stanco
nel tuo sen reclinato, io m’addormenti,
con te prendi, se puoi, prendi pur anco
le alate rime ch’io lanciai ne’venti.
Il saperle con te duro fia manco
che date a l’aura delle ambigue genti:
l’insigne mondo or si travaglia al banco,
e lá vibra sua celia ai numi spenti.
Lasciam l’insigne mondo e la sua cura;
e tu spargi fra i salci, o diva Morte,
qualche strofa d’amor su me sepolto.
Vagheggiarti qua giú fu mia ventura:
e, fermo il passo a le tenarie porte,
darò, nud’ombra, a le tue note ascolto.

XCII

DURO PENSIER

Perché, pari al giudeo, sempre cammina,
sempre, per greppi ignudi o piagge in fiore,
e il breve tempo a logorar s’ostina
questo dotto pensier che invecchia e muore?
E se a l’anima lieta e pellegrina
par celeste scoperta un fil d’amore,
perché, men cauta, sul pensier si china
a macularsi in cenere e dolore?...
Ah! se tu davi a me l’anima sola
senza il duro pensier, madre soave,
teco mi loderei del nascimento.
Ed invece m’affanna il di che vola;
m’affanna il cielo e il mondo. Era men grave
nascer foglia di rosa, in preda al vento.