Pagina:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu/37

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che il cibo eterno e la nettarea coppa
mescon taciti a Giove.
Ebri, nel riso
50generante del ciel, privilegiati
d’incorruttibil tempra, in tutto estrani
al duol della caduca e faticosa
stirpe di Prometèo, lá, sulle sfere,
senza cura od amor che di se stessi,
55con arguto piacer guardano all’uomo,
che li invoca e li teme, ei, primamente
loro artefice e padre.
— A che badargli,
querelator perpetuo e si superbo?
figliuol d’odio e d’inganno? avido, audace
60maestro d’ire e di sogni? Egli i suoi bruti
sventri su Pare, o se medesmo immoli,
bruto peggior. Che premi altri ha menato
se non le beffe eterne? —
In cotal guisa
parla il senno immortai. Questa è la dolce
65data agl’iddíi del fortunato Olimpo
caritá pei viventi. E lá dal forte
supplicar di quaggiú solvan gli orecchi
con le palme divine; e lá, trescando,
dall’osceno fumar dell’ecatombe
70torcon le auguste nari; e lá, giocondi
strani parti dell’uom, regnati la terra.
Musa, ridiam. Ma non del vecchio seme
favolator scortese ira ti prenda.
Credi; lá pur, tra quei bugiardi numi,
75alle forti famiglie in nebbia avvolte
non fu ignoto il tuo Dio. Nelle battaglie
per la terra natia, nei sacri canti
dei poeti c dei sofi, entro le tazze
di cicuta spumanti, e nel perenne
80rimordimento della conscia colpa