Pagina:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu/63

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890di Simonide i canti e le guerriere
di Pindaro armonie. Timoleonte
qua die’le leggi, e d’Archimede gli occhi
misurarono i cieli. E poi l’artiglio
ruppe di Roma i fortunati nidi,
895in che l’aletta di Marcel si crebbe.
E cangiar le favelle e ’l corso e ’l nome
a fiumi e sassi. Dalle pingui aiuole
lungamente brucò l’erba sanguigna
l’arabo corridor stellato in fronte.
900E poi domato dall’arcion normanno,
quando i dodici pii pellegrinanti,
rotti i torpidi sonni al fatainita,
coll’acciar di Roggero e del Guiscardo
qua piantaron la croce. E qua sorrise
905in mira forma al cavalier di Cristo
il superbo desio di Palestina.
E qua di fior si coronò la bella
Nina di Dante; e qua nella celeste
lingua, che tanto innamorò Vaichiusa,
910cantar primi d’amore Enzo e Manfredi.
Poi tirannie di Francia e di Castiglia,
noia alle vive e alle cittá sepolte,
sull’Aretusa e sul divino Alfeo
sceser col ferro,,e, a dissiparle indarno,
915sonar le vespra. La semenza avara,
sin del giglio ne’ calami trasfusa,
vinse gli ausòni fati, e ancor s’inrama
nelle sicule valli, e rinacerba
il vetusto dolor.
Spina non nasce
920nella selva del male, ahi! si feconda,
su cui passando una cauta gente
Torma non piaghi.
O dorici sicani,
riso e flagel della bendata dea!