Pagina:Prose e poesie (Carrer).djvu/301

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Quando Ircano fu entrato nella capanna, le ombre della notte avevano tutta occupata la faccia del cielo, e le rugiade cominciavano a ristorare dall’arsura diurna le innumerevoli piante disseminate per la campagna. Fra il silenzio universale della contrada udivasi nell’interno della capanna il lento mormorare delle preghiere, che prima di porsi a dormire recitavano in coro que’ buoni abitatori della valle. Cessato quel monotono suono, ecco uno de’ figliuoli d’Ircano domandare: — Padre mio, ch’è cotesto che udiamo al di fuori? — Sarà il rumore del rivo che si versa tra le pomici prima di spargersi per la campagna. — Padre mio, egli è rumore assai conosciuto quello del rivo, nè tale si è quello che udiamo presentemente. — Forse egli è il vento che si dibatte tra i fitti rami del terebinto nella prossima selva. — Oh il vento, egli è quello di quasi ogni notte, non ci farebbe stare sì attenti! — Questo, o altro che sia, acchetatevi, miei figliuoli; non è bene cercare per l’ombre. Le tenebre hanno i loro misteri, e ai figli dell’uomo è conceduto il giorno al lavoro, e la notte al riposo. Fosse anche il leone ruggente, non datevi briga. — Padre, egli è peggio che di leone il fremito che ascoltiamo, ma ci accheteremo per quello ne imposero le tue parole.

Detto questo, tacquero tutti, e indi a poco si addormentarono. Ircano anch’esso si distese fra le pelli del suo giaciglio, e ascoltava in silenzio il gemito cupo e prolungato che veniva dal di fuori.