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canto sesto. 105

19 Rinaldo vide Ulivier preso al vischio11
     Un’altra volta, e già tutto impaniato;
     E dicea: Questo ne vien tosto al fischio;
     Conobbe il viso già tutto mutato:
     Vedeva gli occhi far del bavalischio13.
     Disse in francioso un motto loro usato:
     A ogni casa appiccheremo il maio12,
     Chè come l’asin fai del pentolaio14.

20 Ma non vagheggi a questa volta, come
     Solevi in corte far del re Corbante;
     Chè se ti piace il bel viso e le chiome,
     Piace la spada a costei del suo amante:
     Queste son dame in altro modo dome,
     Non c’è più bell'amar che nel levante.
     Ulivier sospirò nel suo cor forte,
     Quasi dicessi: Sol non amai in corte.

21 E ricordossi allor di Forisena,
     Che del suo cor tenea le chiavi ancora,
     Ma non sapeva, omè, della sua pena:
     Prima consenta il ciel, dicea, ch’i’ mora,
     Che sciolta sia dal cor quella catena,
     Che scior non puossi insino all’ultim’ora;
     E se fra’ morti poi vorran gli Dei
     Che amar si possi, amerò sempre lei.

22 Non si diparte amor sì leggiermente,
     Che per conformità nasce di stella15;
     Dovunque andremo in levante o in ponente,
     Amerò sempre Forisena bella:
     Però che ’l primo amor troppo è possente,
     Non son del petto fuor quelle quadrella,
     Ch’io non credo che morte ancor trar possa,
     Prima che cener sia la carne e l’ossa.

23 Lasciam costoro insieme un poco a mensa.
     Aveva alcuna spia re Manfredonio,
     Come colui ch’e’ suoi pensier dispensa,
     D’aver di ciò che si fa testimonio:
     E poi chi ama, giorno e notte pensa
     Come e’ si tragga l’amoroso conio16:
     Non si può dir quel ch’un amante faccia
     Per ritrovar della dama ogni traccia.