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Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/101

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60 la fontana di bakcisarai.

Forse penetrò il tradimento nel suo harem, e qualche odalisca educata nella schiavitù e nella mollezza, diede il cuore a un giaur?

No: le timide spose di Ghirei non ardiscono nė pensare nè desiderare, e sebbene oppresse da una tetra noia, esse non concepiscono idea di tradimento. Rinchiuse in un carcere invigilato da custodi assidui e inesorabili, ivi splendono in voluttuosa quiete come fiori esotici sotto le vetrine di una stufa. Per esse, i giorni, i mesi, gli anni fuggono in monotona fila, portando via seco a mano a mano la gioventù e l’amore. I dì passano tutti simili fra loro, e le ore sembrano lente. L’ozio e la pigrizia sono gli arbitri dell’harem; ben di rado vi s’insinua il piacere. Quando le giovani recluse provano l’angoscia e il tedio, lo dissipano cambiando abbigliamento, giocando, chiacchierando, oppure passeggiando in leggiadra schiera al mormorar delle acque zampillanti, al rezzo dei platani fronzuti. Un malizioso eunuco le segue in ogni parte; non possono sottrarsi alla sua vista. Il di lui sguardo scorge tutto, il di lui orecchio ode tutto. Per sua cura fu stabilita una regola di vita invariabile. Sua unica legge è il volere del Khan, e l’adempie colla stessa scrupolosità che i precetti del Corano. L’eunuco non sa che sia amore; impassibile come una statua, egli accoglie con indifferenza le beffe, la rabbia, le mortificazioni, gli oltraggi d’una petulanza impudica, il disprezzo, le preghiere, i languidi sguardi, i flebili sospiri, le timide lagnanze. Egli conosce bene l’indole delle donne, sa quanta sia l’astuzia femminile in libertà e in cattività. Nè le tenere occhiate, nè le mute rampogne, nè le lacrime