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Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/105

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64 la fontana di bakcisarai.

è vuota e muta. — Nella cappella del palazzo ove in lunga riga dormono le fredde reliquie degli avi con intorno corone e stemmi nobiliari, ora s’inalza una nuova sepoltura. Il padre è morto, la figlia è schiava. Un avaro straniero possiede il castello e spreme con estorsioni tiranniche gli infelici abitatori della campagna.

La corte di Bakcisarai accoglie la giovane principessa; ma la bella vi si strugge in pianto e in gemiti, nè può assuefarsi alla prigionia cui è ridotta. La di lei disperazione, le lacrime, i sospiri, turbano il sonno breve del Khan, il quale fa di tutto onde lenir la doglia della sua captiva, e mitiga per essa l’austerità delle leggi dell’harem. Essa entra nel bagno senza altri testimoni che una serva. Il truce custode delle odalische non penetra da lei nè di giorno nè di notte; non la pone egli in letto con quelle sue mani effeminate, nè osa neppure fissarle gli occhi in volto. Il principe medesimo non ardisce turbare il riposo della vergine prigioniera: le concesse di vivere sola nella più estrema parte della reggia, e diresti che in quel misterioso ricetto s’annida qualche ente più che mortale. Ivi perpetua arde una lampada davanti all’imagine della Madre di Dio; ivi la speranza, ultimo conforto degli afflitti, dimora colla fede e l’umiltà; ivi la sventurata fanciulla si pasce delle rimembranze della patria vicina e così cara, e si lamenta e chiama le dolci compagne che l’invidiano forse. Mentre in tutto il palazzo domina la mollezza e la follia, un angolo di quello diviene, o miracolo d’amore! il santuario della castità e della virtù. Così, anche in mezzo all’ebrezza d’una vita dissoluta, il cuore talvolta riman puro