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eugenio anieghin 77

gilio. Non si sentiva gran vocazione a rovistar nella muffa cronologica dell’istoria del globo; ma sapeva appuntino gli aneddoti curiosi dai tempi di Romolo ai nostri.

Ricusò di sacrificar mezza la vita a studiar prosodia, e ad onta delle nostre premure non giunse mai a poter distinguere un iambo da un coreo. Bestemmiava Omero e Teocrito; leggeva Adamo Smith e diveniva un profondo economista; esaminava per qual modo uno Stato sussiste e s’arricchisce, e perchè l’oro non gli è necessario quando possiede i prodotti primi. Il padre di Anieghin non capiva niente a queste teorie, e ipotecava i suoi beni.

Mi manca il tempo per dire appieno tutto ciò che Eugenio sapeva. Ma la scienza in cui primeggiava, la scienza a cui dalle fasce egli si applicò con impegno, con studio, con diletto; la scienza che occupava le sue intere giornate e vinceva la sua naturale indolenza, era la scienza di quella tenera passione che Nasone cantò sulla lira e per la quale chiuse la vita, come un martire, nelle atroci steppe della Moldavia, lungi dalla sua cara Italia......

Benchè così novizio, già sapeva comporre il volto a suo beneplacito, occultare le sue speranze, simular la gelosia, asserire, persuadere, mostrarsi or feroce or languido, or superbo, or umile, or attento, or indifferente. Come sapeva a vicenda esser silenzioso e discreto, o focoso ed eloquente! Che espansione, che calore nel suo carteggio intimo! Non sospirava che per un solo oggetto, non adorava che una sola donna e per essa dimenticava il resto. L’occhio suo esprimeva ora la tenerezza e la timidità, ora