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v’aggiunge mai signore o signora.” Tale era l’opinione della gente intorno ad Anieghin.

Giunse allora nel villaggio un altro possidente che diede un nuovo pascolo alle chiacchiere degli oziosi. Chiamavasi Vladimiro Lenschi. Allievo di Gottinga, fautore di Kant, scriveva in poesia, era giovine e bello. Recava dalla lugubre Germania i frutti dei suoi studi: dei principii liberali, un’anima ardente e un po’ bizzarra, un linguaggio esaltato, e capelli lunghi sparsi sulle spalle. Non ancora gangrenato dalla fredda perversità del mondo, il cuore di Lenschi gongolava alla lieta accoglienza d’un amico e alle carezze delle vaghe zittelle. Era Lenschi d’una grande ingenuità di spirito, si lasciava facilmente illudere dalla speranza, dalle apparenze e dalle fanfaronate della gente. Svagava i suoi dubbi a forza di auree e gioconde menzogne. La vita umana gli sembrava un enimma interessante; si rompeva la testa a scrutarlo, e si figurava che dalla soluzione di quello dovesse scaturire qualche miracolo. Andava in cerca dell’anima sorella della sua, di quell’anima che, secondo egli credeva, anelava d’unirsi alla compagna destinatale dal cielo, e, aspettando quel fortunato istante, languiva nel dolore. Supponeva che gli amici fosser capaci d’ogni sacrifizio per l’amico; che fosser pronti a incorrer per lui la prigionia e la morte, e non esitassero mai a rintuzzare le calunnie....

L’indignazione, la pietà, il sacro amore del bene, la sete della gloria, sin dai primi anni, gli fecero palpitare il cuore. Sen giva peregrino per la terra senza altra compagnia che la sua cetra. Ammiratore di Schiller e di Goethe, traeva da essi la scin-