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162 eugenio anieghin

Zarieschi adagia con premura il cadavere nella slitta, e trasferisce quel tristo deposito nella propria dimora. I cavalli annusando la morte nitriscono, sbuffano, imbiancano il morso di spuma, e volano come strali.

Amici cari, vi cruccia la fine del poeta. Egli è perito nel più bel fiore delle sue speranze, prima d’aver dato al mondo i delicati frutti. Ov’è adesso quella fiamma entusiastica, quel torrente impetuoso di generosi sensi, di concetti sublimi, faceti o audaci? Ove sono quei fervidi slanci d’amore, quella sete di gloria, quell’affetto allo studio, quell’orror del vizio e della ignominia? E voi ove siele, auree visioni della vita celestiale, illusioni della divina poesia?

Forse, era nato per il bene, o almeno per la gloria. La sua cetra ammutolita avanti l’ora, potea destare un eco durevole nei secoli venturi. Forse un alto grado gli era riservato nella scala sociale. L’ombra sua se ne portò seco i sacri misteri del suo ingegno. Peri per noi quel creatore spirito! E chiuso nell’avello non udirà l’inno nè le benedizioni dei popoli alzarsi qual incenso in suo onore.

Forse anche gli sarebbe toccato in sorte un ricco appanaggio. Avrebbe lasciato i generosi impulsi della gioventù stagnare ed estinguersi nell’inazione. Avrebbe cambiato carattere e idee; avrebbe rinegato le Muse e preso moglie. Fortunato e cornuto avrebbe provato tutte le beatitudini della vita: avrebbe marcito nella sua villa con una guarnacca imbottita indosso; di quaranta anni avrebbe avuto la podagra; avrebbe bevuto, mangiato, sbadigliato; sarebbe ingrassato, e finalmente ammalatosi, sarebbe morto